labadia : La storia della BADIA - ABBAZIA BENEDETTINA DELLA SS. TRINITA'

/articoli/foto/4c10f5cd8b382.jpg VERSO IL MILLENNIO DELLA FONDAZIONE DELL’ABBAZIA 1011-2011
L'abbazia dei Padri Benedettini della SS. Trinità, simbolo e maggior monumento  della città di Cava de’ Tirreni (SA) vero museo all’aperto, sorge nell'amena cornice della valle metelliana,  a poca distanza dalla Costiera Amalfitana, fu fondata nel 1011 da S.Alferio, nobile salernitano di origine longobarda, formatosi a Cluny e deceduto all’età di 120 anni il 12.04.1050.
A seguito della legge di soppressione napoleonica (7 luglio 1867), la Badia benedettina di Cava fu dichiarata monumento nazionale e affidata in custodia all'abate pro tempore.
Come Abbazia territoriale è stata ristrutturata nel 1979: conserva la diocesi con quattro parrocchie e gestisce i santuari di Maria SS. Avvocata sopra Maiori, dell'Avvocatella in S.Cesareo e di S. Vincenzo Ferreri in Dragonea. L’attuale facciata in pietra lavica, è stata realizzata nel 1778, su disegno dell’architetto Giovanni del Gaizo.
 
La storia
Il fondatore della badia fu S.Alferio Pappacarbone, nobile salernitano di origine longobarda, che nel 1011 si ritirò nella grotta "Arsicia" (asciutta) per dare inizio alla vita quasi millenaria della sua Badia. S.Alferio, già consigliere del principe salernitano Guaimario IV, era stato da costui inviato in missione in Francia fra il 1003 e il 1004. L'incontro con l'abate di Cluny, ne decise il nuovo destino e, dopo aver ricevuto dallo stesso l'abito monastico ed essersi fatto esperto nella nuova organizzazione monastica, tornò in Italia a fondarvi la sua abbazia.
Cluny, nell'anno mille, era un vivaio di grandi abati, di pontefici e di santi e da tempo si era battuta per una radicale riforma ecclesiastica, invocata dai fedeli. Una riforma che eliminasse il corrotto e ignorante clero rurale che viveva con mogli (preti di rito greco) e concubine (preti di rito latino), a carico delle chiese; che espellesse dai monasteri i criminali che vi si annidavano e che contenesse il riprovevole comportamento delle più alte gerarchie ecclesiastiche. Con la Riforma di Cluny i grandi cenobi italo-greci, retti in precedenza da un "igùmeno", divennero abbazie con a capo un abate. Come detto nell’anno 1011 Alferio si ritirò nella grotta “arsicia” con il dichiarato scopo di viverci da eremita e di morirci, come, in effetti, fece. Presto, però, la fama della sua santità gli attirò discepoli e dovette necessariamente pensare a costruire un piccolo monastero e sul ripiano scosceso della grotta eresse una chiesa di discrete dimensioni. Secondo un diploma del 1025, Alferio in quell'anno aveva già costruito la sua chiesa e aveva cominciato a radunare una piccola comunità che, a poco a poco, divenne sempre più grande. Era appena terminata la chiesa allorquando il principe longobardo di Salerno, Guaimaro III e suo figlio Guaimaro IV, gli fecero dono della zona boschiva e delle terre coltivate - nel cui ambito era la grotta Arsicia - e che avevano per confine il fiume Selano e due rigagnoli, suoi affluenti. Questa concessione, di carattere feudale, fu la prima di una lunga serie che, nel giro di circa due secoli, portarono all'acquisizione, da parte del monastero, di un patrimonio immenso. I duchi normanni ampliarono tali donazioni. Gisulfo II concesse la giurisdizione su tutto il territorio che avrebbe, in seguito, formato la città di Cava. I principi di Salerno concessero alla nuova fondazione l'esenzione dalle imposte e la libera designazione dell'abate da parte del predecessore o per elezione da parte della comunità. Le ragioni che determinarono lo sviluppo dell'Abbazia, fino a farle acquistare il carattere di una vera e propria congregazione sono da riporsi nelle eccezionali personalità dei primi abati, nell'aureola di santità che circondava le loro figure, nel periodo di riforma ecclesiastica in cui sorse l'Abbazia, nel favore dei Papi, dei Principi di Salerno e dei Re di Sicilia e nella solida organizzazione burocratica e amministrativa data alla congregazione. All'Abbazia furono affidati monasteri da riformare e da sottrarre all'influsso del monachesimo greco e ad essa fu ceduto il patronato tenuto dai signori laici su chiese e monasteri e perfino i poveri offrirono i loro poderi alla potente Abbazia per riceverne protezione. La congregazione cavese (ordo cavensis), assolutamente indipendente sotto l'aspetto amministrativo ma politicamente e giurisdizionalmente dipendente dai vari sovrani succedutisi, era modellata, naturalmente, su quella di Cluny: era retta da un solo abate, con la differenza che tutte le dipendenze, anche se originariamente abbazie, diventavano monasteri, retti da un priore nominato dall'abate ed erano tutte amministrate dall'Abbazia della S.S. Trinità, costituendo con essa un'unica entità territoriale. Una bolla di papa Alessandro III del 1169 enumera come dipendenze di Cava 24 monasteri, 97 chiese e due castelli, disseminati fra il territorio di Salerno, del Cilento, della Lucania, della Calabria, Puglia e Sicilia. Le abbazie che accettavano le consuetudini di Cava e rimanevano abbazie conservavano la loro indipendenza, anche se popolate in un primo momento da monaci di Cava, come Monreale in Sicilia, o rette da un abate venuto da Cava, come la S.S.Trinità di Venosa (Pz). I monaci cavesi erano numerosi, avendo costituito “l’ordo cavensis” (l’ordine cavese). S.Pietro I Pappacarbone, terzo abate e nipote di San Alferio, diede l'abito a più di 3000 monaci che si dedicavano alle più svariate attività: esercitavano il ministero pastorale nelle numerose chiese e priorati dipendenti, trascrivevano codici, insegnavano, reggevano ospizi e ospedali, esercitavano la carità aiutando i bisognosi. Ligi al loro motto "Ora et labora" dovevano, poi, occuparsi dell'amministrazione dell'immenso patrimonio consistente in terre, boschi, allevamenti di ogni specie di animali domestici e della cura e manutenzione di chiese e monasteri. Erano proprietà dell'Abbazia sei approdi sulla costa cilentana: il primo era quello di Santa Maria di Gulia (l'odierno S.Marco di Castellabate), l'ultimo quello di San Matteo, alla foce dello Alento, che rappresentavano il naturale sbocco di mercato dei prodotti agricoli in eccedenza. Il duca normanno Ruggiero, figlio di Roberto il Guiscardo (l'astuto), donò all'abate S. Pietro I Pappacarbone il porto di Vietri, con l'esenzione di dazi e da questo porto partivano le famose tartane di proprietà dei benedettini che solcavano il mare verso Oriente per commerciare nei porti levantini, agevolati dalle esenzioni fiscali concesse anche dai re di Gerusalemme, probabilmente per la presenza di monasteri benedettini in territorio palestinese. Il mandato abbaziale di San Pietro I Pappacarbone, fu impreziosito il 5 settembre 1092, ricevendo Papa Urbano II, che aveva conosciuto a Cluny, il quale visitò l’Abbazia e ne consacrò la basilica.
Per proteggere il nucleo più consistente delle loro terre nel Cilento, l'abate di Cava Costabile Gentilcore costruì sul colle di Sant'Angelo, sovrastante il monastero e l'approdo di Santa Maria di Gulia, un castello-fortezza cinto di poderose mura (ampliato e rafforzato dal suo successore, Simeone) che fu chiamato, in un primo momento, Castello di Sant'Angelo e poi, dal 1173 Castello dell'Abate, in onore del suo promotore. All'occorrenza i monaci non disdegnavano di lasciare il saio e indossare l'armatura per combattere il nemico. Alle esenzioni fiscali già ottenute dall'Abbazia si aggiunsero l'importante privilegio di Federico II di Svevia del 1221, che consentiva alla comunità del monastero ed ai suoi sudditi cavesi il diritto di usufruire delle stesse condizioni degli abitanti e delle terre del Regno - dove si recavano per i loro commerci - nonché un successivo privilegio di libertà di dimora e di transito "morando, eundo et redeundo ubique per Regnum nostrum". Tali privilegi favorirono lo sviluppo di attività economiche e commerciali. L'Abbazia con le sue tartane esportava in Oriente i più svariati prodotti e specialmente le ceramiche, che la stessa Abbazia produceva nelle sue fabbriche che possono essere considerate, a ragione, le prime di quella meravigliosa ceramica vietrese giunta fino ai giorni nostri Oltre ai bacini e alle patere destinati agli uffici liturgici, esportavano boccali, contenitori di unguenti, brocche e boccali invetriati e decorati con le tipiche spirali d'influenza musulmana, vasetti per la salagione di alici e di tonni, anfore e langelle per contenere vino ed olio e le famose "rogagne" (ceramiche ad invetriatura trasparente), scodelle per la mensa conventuale e piastrelle policrome (come quelle che decorano il duomo di Amalfi), che andavano ad arricchire gli ambienti e specialmente le numerose sale da bagno arabe. A queste prime occupazioni dei monaci, ligi alla Regola di San Benedetto, si aggiunse, in seguito, lo studio e la diffusione della musica e del canto liturgico della Chiesa latina, chiamato "Canto Gregoriano", dal nome di Carlo Magno, che ne era stato il più attivo organizzatore. Purtroppo a questo periodo di sviluppo del 1100-1200, successe un periodo in cui l'Abbazia visse solo di rendita e ciò si deve prima di tutto al fatto che gli abati successivi non furono all'altezza del compito loro assegnato. L'alone di santità dei primi abati era calato Inoltre l'appoggio papale non fu sempre costante; anzi qualche volta fu in pieno contrasto con l'Abbazia e interferì nelle elezioni degli abati. A questo si aggiunge il gravoso peso fiscale richiesto dai sovrani per le frequenti contese armate che annullavano la possibilità di altre acquisizioni da parte della Badia e resero di difficile amministrazione i beni già posseduti e in special modo i più lontani. Nel 1397 papa Bonifacio IX emanò una bolla papale, elevando Cava de’ Tirreni al rango di città, relegando il monastero cavese a vescovato con diocesi corrispondente al territorio dell'Abbazia. Per effetto di questa bolla, gli abati-vescovi che si succedettero "pro tempore" furono meno accorti alle fortune economiche dell'Abbazia. La parabola calante del cenobio ebbe il suo epilogo con la concessione di quest'ultimo in commenda. L'amministrazione spirituale e temporale fu affidata ai vescovi, dipendenti dal cardinale commendatario, al quale erano devolute tutte le rendite. Tale regolamento, comune a tutte le congregazioni benedettine, impedì il tentativo, da parte del monastero, di rientrare in possesso dei beni perduti, in quanto i cardinali commendatari, per la loro posizione a corte, erano costretti a vivere lontano dalla Badia e i vicari non potevano occuparsi che dell'ordinaria amministrazione. Dopo un ultimo vano sforzo dell'ultimo cardinale commendatario, Oliviero Carafa, per ridare all'Abbazia la consistenza temporale perduta e riportare tra le antiche mura quell'aureola di santità e di correttezza che la corruzione dei costumi aveva spazzato via, la Badia di Cava, nel 1497, con una bolla di Alessandro VI, veniva incorporata nella Congregazione di S. Giustina di Padova. I monaci cavesi non si sottomisero docilmente alla nuova gestione ed anche il popolo di Cava fu in pieno fermento, specialmente quando furono tolti dalla Curia Romana tutti i privilegi, fra cui le proprietà migliori: il porto di Vietri e S.Arsenio nel Vallo di Diano. Sarebbe troppo lungo parlare della vita dell'Abbazia dal 1513, anno in cui Leone X ratificò l'atto di erezione della nuova diocesi, ai giorno nostri. Fra tutti gli abati che si susseguirono merita una speciale menzione D.Vittorino Manso di Aversa che insegnò per 20 anni filosofia e teologia nelle varie case dell'Ordine; fu priore a Firenze e lasciò molte opere scritte. A lui si deve la fondazione del famoso Archivio che volle indipendente dalla biblioteca, allorché fu chiamato a reggere l'Abbazia nel 1588, e a lui va il merito di aver trasferito nel proprio Archivio i documenti donati dall'ultimo principe longobardo e dai principi e signori normanni ai vari monasteri, una volta cenobi italo-greci. Suo merito particolare fu l'aver rivendicato l'autonomia e la giurisdizione dell'Abbazia di fronte alle vessazioni dei vescovi, confermando i privilegi degli abati soggetti solo alla Santa Sede. L'archivio contiene più di 15.000 pergamene e una quantità enorme di documenti datati dal 792 al 1065 il cui testo integrale è pubblicato nei volumi del Codex Diplomaticus Cavensis. Tra quelli più importanti vanno citati i Codex Legum Longobardorum del sec XI e la Bibbia Visigotica del IX sec. La biblioteca, staccata dall'Archivio, custodisce più di 50.000 volumi, con numerosi incunaboli e importantissime edizioni cinquecentesche. L'Abbazia subì diverse calamità naturali, come il terremoto del 1631, pestilenze e carestie, alluvioni e le usurpazioni dei feudatari Nel 1640 un grande masso precipitò sulla cappella di S.Felicita; subì ingenti furti, ma questi tragici avvenimenti non turbarono eccessivamente la serenità dei monaci guidati dai loro abati, ognuno dei quali aggiunse lustro all'Abbazia. La basilica, costruita nel sec. XI dall'abate S:Pietro, e completamente restaurata nel sec. XVIII su disegno di Giovanni del Gaiso, conserva, dell'antica struttura, solo l'ambone cosmatesco del sec XII e la Cappella dei S.S. Padri, i primi quattro abati, diventati Santi. Interessantissima è la cripta del sec. XII su colonne del sec. IX-X e pilastri cilindrici in muratura, che raccoglie il Cimitero Longobardo, le cui pareti conservano avanzi di affreschi di Andrea Sabatini. Una vasta sala del sec. XII. è adibita ad un ben allestito Museo che, fra i suoi molti interessanti tesori, racchiude una Collezione completa di monete delle Zecche Normanne di Salerno.
Questo breve studio si conclude con la soppressione napoleonica, per merito dell’abate D. Carlo Mazzacane, passò senza arrecare gravi danni alla badia: 25 monaci rimasero a guardia dello Stabilimento (tale fu il titolo dell’abbazia) e il Mazzacane ne fu il Direttore. La restaurazione, dopo la caduta di Napoleone, portò a un rinnovamento dello spirito religioso. Nel 1866, in considerazione dei valori artistici e scientifici accumulati nelle sue mura e del fatto che era centro di una diocesi, il monastero fu dichiarato Monumento Nazionale e, come tale, si salvò dalla rovina a cui andarono incontro tante altre illustri abbazie italiane. Eroica si dimostrò allora la virtù dei pochi monaci rimasti. Aprirono un nuovo campo di apostolato monastico istituendo un collegio laicale, che è tuttora fiorente, e redassero come già citato innanzi il Codex Diplomaticus Cavensis, in cui pubblicarono il testo integrale delle più antiche pergamene dell’archivio Cavense. Si tratta di un’opera monumentale, che ha resa famosa la badia in tutto il mondo scientifico. I più moderni abati hanno continuato degnamente l’opera dei SS. Padri Cavensi. Essi hanno restaurato ed ampliato gli edifici del monastero e dato nuovo impulso alla sua vita millenaria, che dura ininterrotta ancora oggi.